La storia dell'implantologia ha radici antiche e profonde. Il primo reperto risale addirittura al V secolo a.C. e si tratta di una mandibola sulla quale sono presenti i segni dell'inserzione di un corpo estraneo all'interno di un alveolo dentale. Le prime protesi dentali erano costituite da materiali duri e malleabili, comunemente conchiglie lavorate, ossa e in alcuni casi, più recenti, anche minerali o metalli.
Tutte queste tecniche erano molto artigianali, poco accurate e spesso risultavano in infezioni e setticemie che potevano portare alla morte. Dobbiamo aspettare il XIX secolo per osservare i primi veri tentativi di formalizzare delle tecniche di implantologia dentale più scientifiche e raffinate.
Lo sviluppo del XIX secolo
Ad inizio secolo era comune utilizzare materiali come ferro ed oro. Maggiolo, un medico italiano di Chiavari, realizzava impianti endossei dotati di occhielli di ancoraggio osseo, mentre l'altra estremità era dedicata all'ancoraggio protesico. Questa tipologia di struttura permise nel 1891 di sviluppare delle protesi in porcellana.
In seguito si diffuse anche l'utilizzo dell'argento come materiale per la realizzazione di impianti, ma successivi studi dimostrarono la non efficienza di questa tecnica.
Le scoperte del XX secolo
Ad inizio secolo Bonwill e School constatarono tramite studi sui pazienti da loro operati che oro ed argento erano sottoposti ad una lenta erosione, con successivo assorbimento dei residui da parte dell'osso e dei tessuti circostanti.
Nel cercare un materiale più stabile che potesse sostituire quelli già in uno, nel 1909 Greenfield sperimentò l'iridio-platino, ottenendone poi il brevetto quattro anni dopo. Questa scoperta aprì nuove strade nell'implantologia dentale, con la possibilità di realizzare impianti da inserire all'interno di alveoli artificiali ottenuti scavando l'osso.
L'iridio-platino venne utilizzato principalmente per realizzare viti ed impianti inerti, utilizzati come base per l'inserimento di elementi protesici.
Nel 1943 si ebbero i primi interventi caratterizzati dall'inserimento di impianti endodontici, ossia strumenti per preservare il dente vacillante piuttosto che sostituirlo.
Gli anni Cinquanta e il contributo italiano
A partire dal 1947 Manlio Salvatore Formiggini dette un fondamentale sviluppo all'implantologia dentale realizzando viti in filo acciaio cave e a spirale, inserite con una tecnica detta infibulazione diretta endoalveolare.
Questa particolare struttura consentiva al tessuto fibroso di inserirsi all'interno delle maglie della vite e di tramutarsi in osso. In questo modo si è ottenuta una ritenzione ossea che garantiva maggior durata e resistenza dell'impianto. Altro importante contributo di Formiggini fu l'istituzione di una scuola italiana, la quale formò le personalità di spicco del cinquantennio successivo.
In tutta la seconda metà del Novecento si videro sviluppi costanti sia nella scelta dei materiali, sia nel rinnovamento di tecniche sempre più raffinate ed efficaci.
Ugo Pasqualini fece delle ricerche molto importanti, riprese poi da Branemark quasi trent'anni dopo e su cui si creò una breve disputa, riguardanti l'osteogenesi riparativa.
A Tramonte è dovuto l'utilizzo del titanio in ambito implantologico, con la creazione di una vita autofilettante che è stata poi d'ispirazione anche per impianti più moderni e recenti.
La Scuola Italiana ottenne un grande consenso anche all'estero, con premi, citazioni e riconoscimenti da parte di enti e riviste molto importanti del settore. Fino ad ora le ricerche erano portate avanti da singoli professionisti o piccoli gruppi, spesso in competizione tra loro, ma in questo periodo il mondo della ricerca universitaria iniziò a cambiare. Si iniziò ad applicare un metodo di ricerca più sistematico, con un forte interconnessione tra le università italiane ed internazionali. La condivisione di informazioni e mezzi fu di fondamentale importanza per giungere alle tecniche tuttora utilizzate, portando ad uno sviluppo sempre più rapido nella scienza dell'implantologia dentale.